L’Asilo nel bosco è una tipologia di scuola dell’infanzia rivolta a bambini di età compresa tra i tre mesi e i cinque anni e mezzo, che si svolge quasi esclusivamente all’aperto. I bambini sono incoraggiati a giocare, esplorare e imparare in un ambiente naturale, in qualsiasi stagione, entrano in contatto con la campagna, ambiente naturale del fanciullo, arrivando ad ottenere un’educazione fisica e morale. Partendo da alcuni elementi fondamentali e fondanti dell’approccio educativo sopracitato, si vorrebbe (ri)abbracciare un’idea di educazione e genitorialità improntata alla scoperta di se stessi e delle proprie radici umane.
1.11.1 Accenni di pedagogia del bosco
Accenni di pedagogia del bosco Negli anni ‘50, in Danimarca, una mamma di nome Ella Flautau decide di creare un piccolo asilo familiare per aiutare altre mamme lavoratrici che vivevano in condizioni di ristrettezze economiche. Per ovviare alla necessità di affittare dei locali per ospitare l’asilo, decidono di tenere i bambini all’aperto, portandoli a giocare ogni giorno in un parco. L’idea piace a diversi genitori del vicinato e nasce così l’idea di un asilo nella natura che prenderà il nome di Skogsbornehaven o Naturborneahaven e che nel giro di pochi anni si diffonderà in tutto il Nord Europa (Svezia, Norvegia, Germania, Finlandia, Regno Unito su tutti). I skogsbornehaven o naturborneahaven danesi sono oggi conosciuti anche con il termine tedesco di waldkindergartens. Essi si trovano nei boschi (wald), e sono centri educativi (kindergartens, letteralmente “giardini per bambini”) per bambini in età prescolare. Nei waldkindergartens i bambini trascorrono tutta la giornata all’aperto (dalle 8:00 alle 13:00 o alle 16:00, a seconda delle diverse realtà), qualunque siano la stagione e le condizioni atmosferiche (solo in caso di forte maltempo ricorrono a una piccola struttura, di solito una casetta di legno). I bambini, dai tre ai sei anni, giocano tutti assieme.
Opportunamente vestiti a seconda della stagione, i bambini se ne stanno liberi in mezzo alla natura, chi a giocare con l’acqua di una pozzanghera, chi a fare costruzioni con rami e rametti, chi a creare mondi immaginari con gli oggetti e le scenografie che, nei vari momenti dell’anno, il bosco mette a disposizione. Sono lasciati il più possibile liberi, nella scelta e nella creazione dei giochi, nel movimento e nell’esplorazione dello spazio e nella gestione delle relazioni con l’ambiente e con il gruppo;
sperimentano in ogni istante il delicato equilibrio tra libertà e disciplina. Le regole sono poche e semplici: rimanere a una distanza dalla quale si sentano chiamare dagli operatori e non toccare gli animali che si possono incontrare. In alcune scuole un paio di volte al mese i bambini fanno delle gite durante le quali visitano fattorie vicine, laboratori artigianali, musei. Il rapporto tra bambini ed educatori è generalmente di uno a dieci e la sicurezza dell’ambiente viene sempre tenuta sotto supervisione dagli educatori stessi. Nei waldkindergartens quello che conta è l’esperienza diretta; i bambini, grazie all’ampia gamma di occasioni offerte dalla natura, hanno la possibilità di vivere giornalmente vere avventure, di usare tutti i sensi, soddisfare il loro bisogno di movimento e di incrementare le capacità motorie e le proprie forze;
riescono a essere più calmi e meno aggressivi. In questi giardini d’infanzia i bambini entrano presto in contatto con l’esperienza del limite, imparano a conoscere i limiti dell’ambiente e di se stessi e quindi anche a superarli. Il gioco libero nella natura aiuta a favorire un rapporto di armonia tra corpo e mente, a migliorare l’equilibrio interiore e a controbilanciare la vita frenetica, lo stress, l’invasione di stimoli e la sovrabbondanza di giocattoli con cui devono fare i conti oggi. La lunga tradizione che ha visto il Nord Europa fortemente interessato alla creazione di nuovi paradigmi educativi, come dimostra la grande diffusione delle scuole che adottano l’indirizzo steineriano o altre pedagogie alternative, ha sicuramente creato in questi paesi un terreno fertile anche per lo sviluppo dei waldkindergartens. Inoltre, a differenza di altri paesi europei come la Francia e l’Italia, in Danimarca, Svezia, Norvegia e Germania non esistono degli standard nazionali che regolamentino i centri educativi per i bambini in età prescolare. È così che, grazie al crescente desiderio di molte famiglie di dare un’opportunità ai loro figli di vivere un contatto più diretto con il mondo naturale, i waldkindergartens si stanno rapidamente diffondendo, e oggi se ne contano diverse centinaia. La filosofia dei waldkindergartens si può riassumere in questi quattro principi basilari: la natura, con la sua fonte inesauribile di opportunità di gioco, stimola nei bambini la fantasia, la curiosità e la creatività; il contatto diretto con la natura consente ai bambini di riconoscere spontaneamente il valore dell’ambiente naturale; il bosco offre ai bambini un ambiente ideale per muoversi in libertà, sviluppando sicurezza e fiducia in se stessi; nel gioco libero, associato a una routine quotidiana, i bambini imparano ad intessere le loro relazioni sociali ed anche a risolvere i conflitti. Dopo diversi anni dalla loro nascita, si stanno cominciando a studiare e valutare i risultati di questa esperienza pedagogica. I bambini stanno bene e frequentano volentieri, i genitori sono soddisfatti e le risposte delle maestre elementari che si trovano a insegnare a classi con bambini provenienti dai walkindergartens sono generalmente positive: buona capacità di concentrazione e autonomia, spiccata creatività e curiosità, minor aggressività, impazienza e tendenza ad ammalarsi. Pur non essendoci una realtà di scuola nel bosco completamente uguale ad un’altra, e pur non esistendo un modello definito a priori, diversi ricercatori hanno cercato e stanno cercando di capire e definire le basi pedagogiche dei walkindergartens e della pedagogia del bosco a cui questi contesti educativi fanno riferimento e che hanno contribuito a creare ed incentivare. Attraverso l’utilizzo di un questionario, Huppertz individua, ad esempio, alcune finalità che gli insegnanti/educatori riferiscono al walkindergarten: promuovere un atteggiamento sociale positivo verso l’altro; educazione ambientale;
promuovere l’autostima prendendo sul serio i bambini e considerandone l’individualità di ciascuno;
supportare lo sviluppo dell’autonomia; sollecitare diverse abilità; vivere l’ambiente con rispetto e partecipazione; rispetto e conoscenza dei bisogni dei bambini; salute fisica e mentale; trasmettere gioia per la vita; incentivare nei bambini un atteggiamento di responsabilità diretta. Non è chiaro se queste categorie siano state fornite o desunte dalle risposte ai questionari, ma gli elementi emersi forniscono alcuni spunti interessanti per tentare di capire maggiormente la pedagogia del bosco ed i suoi innumerevoli sviluppi.
Un progetto a misura di bambino dove la natura è l’aula e l’educazione emozionale l’approccio.
1.21.2 Come funzionano gli asili nel bosco e qual è il metodo educativo
Il nucleo progettuale si sviluppa attorno ad alcune parole chiave che vorrebbero essere le colonne portanti teoriche e pratiche delle attività. Natura La natura diventa protagonista ed importante alleata dell’esperienza di crescita dei bambini. L’ambiente naturale è infatti di per sé ricco di stimoli ed occasioni per giocare, conoscere, imparare, creare e soprattutto meravigliarsi. Senza che l’adulto predisponga setting specifici o attività estremamente programmate e strutturate, la natura offre spontaneamente il suo ambiente ricco di esperienze dai significati educativi ed umani rilevanti. Purché gli adulti riescano ad instaurare quel legame profondo ed ancestrale con la natura recuperando uno sguardo fanciullesco fatto di fantasia, creatività, immediatezza ed ingenuità. Purché gli adulti, attraverso questo legame profondo, riescano a cogliere questi stimoli e queste occasioni. È solo tramite questa connessione con l’ambiente naturale che può essere data anche ai bambini la possibilità di vivere e godere della forte valenza esperienziale che la natura può regalare dal punto di vista: educativo e dello sviluppo individuale; della salute (fisica e mentale); ecologico; antropologico e storico. La natura offre numerose occasioni e stimoli per supportare e rinforzare in maniera completa ed esaustiva tutti gli ambiti di sviluppo del bambino (ambiti che il Ministero dell’Istruzione chiama campi d’esperienza e che declina in: il sé e l’altro, il corpo e il movimento, immagini-suoni-colori, i discorsi e le parole, la conoscenza del mondo). Ormai numerosi studi internazionali e nazionali dimostrano come stare all’aria aperta garantisca migliori standard di salute fisica e psicologica. Passare del tempo fuori dagli ambienti chiusi dei vari edifici che abitiamo (casa, scuola, uffici…), in tutto il periodo dell’anno apporta significativi benefici al funzionamento biologico del nostro organismo. Inoltre, lo stare in natura è spesso associato a del movimento e/o attività fisica poiché l’ambiente naturale incentiva a ciò (passeggiare, camminare, correre…). È, poi, altrettanto dimostrato come immergersi in natura porti benefici psicofisici come abbattimento dello stress, rigenerazione mentale, maggiore connessione con se stessi e con il proprio essere. Per i bambini questi elementi sono ancor più rilevanti. A scuola i bambini passano molto tempo in ambienti chiusi, seduti o comunque con possibilità di movimento limitate, con tante altre persone, senza la possibilità di stare fuori per un tempo appropriato allo sforzo fisico e mentale richiestogli. Da un punto di vista evolutivo il movimento riveste un ruolo fondamentale nella fascia 0-6 e costituisce ancora un importante strumento di conoscenza del mondo e degli altri. Stare all’aperto permette di contrastare, in un’età di pieno sviluppo e potenzialità, alcune pessime abitudini di salute fisica e psicologica che la società in cui viviamo invece promuove: sedentarietà, individualismo, isolamento fisico e mentale, frenesia, stress. Stare in natura, conoscere l’ambiente in cui abitiamo e le numerosissime forme viventi presenti, aiuta a creare un legame significativo tra uomo ed ecosistema. Nell’epoca della produttività ad ogni costo, del consumismo più sfrenato che alimenta il nostro sistema economico, del guadagno come unico obiettivo, ci stiamo dimenticando sempre più delle bellezze e delle meraviglie che caratterizzano il nostro pianeta.
Ricominciare a conoscere la natura, il suo funzionamento, i suoi cicli e le sue dinamiche è il primo passo per tornare ad amarla e quindi a rispettarla. Come suggeriva, in maniera incredibilmente attuale, Maria Montessori, “la natura si è a poco a poco ristretta, nella nostra concezione, ai fiorellini che vegetano, e agli animali domestici utili per la nostra nutrizione, per i nostri lavori, o per la nostra difesa. Con ciò anche l’anima nostra si è rattrappita. […] La natura, in verità, fa paura alla maggior parte della gente. Si temono l’aria e il sole come nemici mortali. Si teme la brina notturna come un serpente nascosto tra la vegetazione. Si teme la pioggia quasi quanto l’incendio”. Ci si prende cura solo di ciò che si ama.
Ricominciare ad amare la natura e a farla amare ai nostri figli forse permetterà a loro di amare e prendersi cura maggiormente del mondo in cui vivono e vivranno. Stare in natura e conoscerla vuol dire anche ascoltare le sue narrazioni e la sua millenaria storia. La storia della natura è alla base della storia dell’uomo, della nostra storia. Conoscere i cicli naturali e come l’uomo ha interagito con essi creando l’allevamento e l’agricoltura; conoscere come l’uomo si è rapportato con la natura (nel bene e nel male); conoscere il legame profondo e per certi versi vincolante che caratterizzava la vita dei nostri antenati; tutto questo apre uno spazio di conoscenza e profondo contatto con le nostre tradizioni e le nostre storie, con quello che eravamo, siamo e che potremo essere. L’apprendimento più significativo per la fascia 0-6 (e non solo) è quello concreto che passa dal fare, dallo sporcarsi le mani, dal provare, sbagliare e riprovare. Toccare, annusare, osservare, sentire, gustare:
sono queste le chiavi d’accesso alla conoscenza del mondo. Ed è attraverso queste chiavi d’accesso che si spalancano le porte di una conoscenza situata in quello che si fa e si vive. Conoscenze, relazioni, emozioni: tutto si impara vivendolo e facendone esperienza. ‟Attraverso la pratica l’individuo impara, scopre, comprende il funzionamento delle cose ed è per questo che l’educazione attiva deve essere concepita come una ricostruzione continua dell’esperienza; […] il processo e il fine dell’educazione sono una sola e identica cosa”. Un’esperienza, quella all’aperto, che Dewey definiva primaria cioè diretta e non mediata da altri o altro. Secondo il pedagogista statunitense, un eccesso di esperienze mediate, ad esempio dagli apparati tecnologici, rischierebbe addirittura di ‟spersonalizzare la vita umana”. Anche Ottella sottolinea questa riappropriazione di un processo attivo e diretto da parte del bambino nella costruzione del proprio apprendimento quando afferma che ‟quello che i bambini vorrebbero realmente fare sarebbe di provare a superare da soli quelle difficoltà che spesso preventivamente risolviamo; sarebbe di esplorare da soli ciò che preventivamente gli sveliamo e spieghiamo; sarebbe di potersi porre domande e di poter cercare da soli le risposte prima che siamo noi a dargliele”. Gioco libero Il gioco è la prima forma di relazione e di apprendimento per i bambini (in realtà anche per gli altri cuccioli animali). Giocando si impara. Giocando ci si relaziona agli altri. Giocando si sperimenta se stessi e ci si conosce. L’apprendimento passa attraverso il gioco: elemento imprescindibile della progettazione che si vuole sostenere. Superare un’idea ‟prestazionale e produttiva” secondo cui, anche in tenera età, il gioco si contrappone all’apprendimento sembra essere una necessità non più rinviabile. I bambini devono ritornare a giocare. E soprattutto ad un gioco libero, spontaneo e non sempre strutturato dagli adulti o veicolato da giocattoli. Crediamo in un gioco creativo e libero, costruito dai bambini sugli stimoli e le occasioni che loro stessi vivono e colgono. Crediamo in un gioco che parta dagli oggetti naturali che l’ambiente offre e che possono trasformarsi in tutto ciò che si vuole. Crediamo in un gioco partecipativo caratterizzato da inventiva, competenze e condivisione. Come scrive Peter Gray: ‟il gioco è il sistema cui la natura ricorre per insegnare ai bambini a risolvere i problemi, controllare gli impulsi, modulare le emozioni, mettersi nei panni degli altri, negoziare le differenze, andare d’accordo e sentirsi alla pari con chi ha intorno. Il gioco non ha ‟supplenti” che possano insegnare queste capacità al suo posto”. E ancora: ‟è giocando tra loro, lontano dagli adulti, che i bambini imparano a prendere decisioni, a gestire emozioni e impulsi, ad assumere punti di vista diversi, a trovare compromessi e a fare amicizia. […] è giocando che i bambini imparano ad assumere il controllo della propria vita”. Quale bambino? L’idea di bambino che si vorrebbe promuovere e sostenere è quella di un bambino competente, ma in funzione dei contesti, delle situazioni che vive e delle proprie peculiarità. Ogni bambino, come ogni persona, è diversamente unico: tempi, caratteristiche, capacità, debolezze, limiti e risorse, bisogni e desideri. Ogni aspetto dell’individualità concorre allo sviluppo ed al manifestarsi di ciò che siamo.
L’infanzia è un momento della vita dove l’obiettivo principale dell’adulto dovrebbe essere affiancare e accompagnare i bambini nella scoperta di sé percorrendo un tratto di strada insieme. Vorremmo camminare con i nostri figli sostenendo il loro essere competenti attraverso alcuni principi che ci sembrano importanti. Libertà vs norma Libertà di gioco, libertà d’azione, libertà di pensiero. L’obiettivo è alimentare nei bambini competenze critiche e consapevolezza di sé attraverso un agire libero. Libertà che non significa assenza di regole.
Semmai la libertà qui esplicitata è assenza di norme precostituite e calate dall’alto e dagli adulti, uscendo dalla logica del ‟si fa così perché lo decido io” o ‟queste sono le regole e bisogna rispettarle”, percorrendo la strada della condivisione, della contrattazione, della partecipazione attiva alla definizione di quel minimo di regole che servono per stare bene insieme nel rispetto l’uno dell’altro. I bambini non sono contenitori vuoti da riempire o piccoli uomini e donne da indottrinare e incanalare in un ordinamento relazionale e sociale precostituito. I bambini sono teste già ricche di pensieri e idee che possono partecipare fin da subito alla creazione del mondo comunitario in cui vivono. Abbandonare uno stile educativo incentrato solo sul divieto e promuoverne uno costruito ritrovando e ritarando ogni volta la giusta distanza nella relazione educativa, tra adulti e bambini, tenendo presente una relazione che ha il compito di accompagnare, sostenere, promuovere la crescita dei bambini e con i bambini”. Gestione del conflitto Un aspetto importante nel processo di libera espressione di sé è la gestione del conflitto o meglio come viviamo i conflitti. Il punto di partenza è il superamento di un’idea solo negativa del conflitto.
Confliggere non è qualcosa da cui fuggire, ma un elemento caratterizzante la vita sociale e le relazioni. Si può imparare ad abitare i conflitti, purché fin da piccoli venga data la possibilità ai bambini di poterlo fare. Se, in conflitti di gioco tra bambini, l’adulto si pone sempre come mediatore, risolutore o addirittura seda sul nascere ogni contesa, difficilmente quei bambini potranno sperimentarsi nello stare e nel provare a risolvere tali conflitti. Se non potranno mai sperimentarsi nello spazio fisico e mentale di un conflitto, difficilmente quei bambini sapranno in futuro confliggere nel rispetto delle altre persone.
Rischio/pericolo
Un altro elemento importante di confronto è la tendenza diffusa, che come genitori spesso sentiamo, di considerare i nostri figli solo come beni preziosissimi da proteggere e tutelare dal mondo. Per quanto l’intenzione possa in parte sembrare positiva e naturale, in realtà sembra produrre più elementi di negatività e di difficoltà che benefici. Soprattutto per i bambini. L’esasperato tentativo di ‟difendere” e ‟prevenire” porta spesso i bambini ad un significativo impoverimento di esperienze ed occasioni educative e di crescita. E le alternative considerate sicure, non fanno altro che peggiorare la situazione.
In realtà questo desiderio di protezione si muove sull’ambiguità di fondo tra i concetti di rischio e di pericolo, che non sono assolutamente sinonimi (anche e soprattutto da un punto di vista pedagogico).
Ecco la definizione che l’enciclopedia Treccani dà del termine rischio: ‟Rìschio (ant. risco) s. m. [der. di rischiare]. Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo che pericolo)”. Per quanto riguarda il termine pericolo la stessa enciclopedia scrive:
‟Perìcolo s. m. [dal lat. pericŭlum «esperimento, processo giudiziario»]. Circostanza o complesso di circostanze da cui si teme che possa derivare grave danno…”. Le due definizioni suggeriscono che in entrambe le situazioni, di rischio e pericolo, ci sia la possibilità di ricevere o arrecare un danno. Ma le situazioni di rischio possono essere più o meno prevedibili e con un margine d’azione dell’individuo o degli individui in grado di determinare l’esito stesso della situazione. In situazioni di pericolo sembrerebbe invece che questo margine d’azione individuale o di gruppo sia molto limitato o quasi nullo. Ciò che educativamente è significativo per i bambini è la possibilità, e la relativa competenza che ne può nascere, di sperimentare questo margine d’iniziativa personale anche in situazioni di rischio.
Come scrive Louv: ‟La vita moderna circoscrive i nostri sensi a tal punto che riusciamo a percepire quasi soltanto attraverso gli occhi, e preferibilmente nello spazio limitato di uno schermo o di un monitor. Al contrario, la natura accresce le nostre capacità sensoriali, che sono il primo e più importante strumento di autodifesa di un bambino. Se i nostri figli vivono a stretto contatto con la natura, imparando a vedere il mondo direttamente, avranno maggiori possibilità di sviluppare le capacità psicologiche di sopravvivenza che li aiuteranno ad individuare il vero pericolo, e sarà di conseguenza meno probabile che vedano pericoli dove non ci sono. Giocare nella natura può infondere un’istintiva fiducia in se stessi”.
Rispetto a questo tema poi ci si deve confrontare anche con l’idea e l’immagine di bambino che abbiamo. Anche la visione antropologica che abbiamo dei nostri figli, come sottolinea Gauchet, influenza il nostro approccio educativo ed il nostro rapporto con elementi della crescita dei nostri figli così delicati e complessi. Il filosofo francese parla di ‟figlio del desiderio” per provare ad offrire un’immagine attuale e contemporanea dei bambini e della relazione che i genitori intessono con loro da un punto di vista affettivo ed educativo: una relazione dove aspettative, desideri, immaginata e fragilità degli adulti si riversano nell’esperienza di vita dei figli; una relazione dove l’amore non si manifesta come vento che apre le ali e sostiene il volo dei bambini, ma che si trasforma, in maniera inconsapevole e condizionata dalla società in cui viviamo, in gabbie dorate in cui al massimo si può saltellare da una parte all’altra della gabbia. Vascotto parla a riguardo di perdita del senso di vulnerabilità e imperfezione come ‟elementi preziosi che possono aiutarci a capire chi siamo, a costruire solidarietà e relazioni, a maturare risorse per affrontare le avversità della vita”. Contemplando l’imperfezione si contempla anche la possibilità di fallimento, contrastando il sempre più diffuso dictat di successo sempre ed ad ogni costo. Espressione e conoscenza di sé Gioco libero e apprendimento esperienziale possono favorire anche una maggiore espressione e conoscenza di sé. Da un lato la possibilità di impegnarsi in attività e giochi che rispecchiano il proprio essere in un tempo presente può dare la possibilità ai bambini di esprimere e rendere visibili attraverso appunto il gioco i propri interessi, bisogni, desideri, in poche parole ciò che si è in quel momento specifico. D’altro lato, sperimentare, tentare, sbagliare, riprovare o cambiare strada può incrementare la consapevolezza delle proprie caratteristiche, delle proprie risorse e potenzialità, dei propri limiti e delle proprie difficoltà, sempre nel qui e ora di quel preciso momento. Senza rigidità, giudizi o etichette, ma nel naturale divenire che caratterizza l’essere umano. Emozioni In questa prima fase della vita emergono prepotentemente le emozioni: nuove, sconosciute, prepotenti, ingestibili, effimere ed istintuali. Dare spazio a ciò che i bambini vivono nella loro quotidianità; dargli un nome; guardarlo in faccia anche e soprattutto attraverso l’altro; sperimentarlo in situazioni tutelanti e condivise. Tutto ciò rientra in quella che potremmo chiamare educazione alle emozioni e all’empatia che, attraverso la lettura, la narrazione, il racconto, il dialogo, la relazione, l’arte ed il movimento, dovrebbe essere uno dei pilastri della cura educativa dei bambini. Un’educazione alle emozioni costruita su sentimenti di autenticità e onestà emotiva, abbandonando una tendenza all’iperprotezione (ormai culturale) nei confronti dei nostri figli, anche per le emozioni. Se è importante che i bambini entrino liberamente in contatto con le emozioni positive, è altrettanto importante che nella loro infanzia possano incontrare anche quelle negative. Perché? Perché questa è la realtà. Altro è solo finzione ed illusione, con conseguenze negative rispetto alla crescita ed alla costruzione di sé e del proprio rapporto con il mondo (vedi tutto il tema delle fiabe e del lieto fine). Fuori Sentiamo l’esigenza di uscire. Di andare fuori. Fuori, per ridare il mondo ai bambini. Fuori, perché l’ambiente naturale torni ad essere elemento significativo della crescita dei nostri figli. Fuori, per respirare l’aria fresca, sentire il sole sulla faccia, toccare la rugiada, sentire la pioggia che ci bagna il viso, correre e sdraiarci nell’erba, arrampicarci sugli alberi, bagnarci i piedi nelle pozzanghere. Ma vogliamo anche uscire da alcuni pregiudizi, da alcune immagini cristallizzate, da tradizioni e pratiche antiche rispetto all’infanzia ed all’educazione. Fuori dall’idea di bambino vuoto e da riempire di concetti e nozioni. Fuori da un’educazione esclusivamente direttiva e impostata solo dall’adulto. Fuori da un apprendimento che si struttura su un processo univoco tra adulto che insegna e bambino che impara, ma dentro un processo conoscitivo di insegnamento/apprendimento reciproco. Fuori da un’attenzione solo alle risposte, ma dentro una continua ricerca di domande. Fuori da una logica produttiva e prestazionale, ma dentro una prospettiva di connessione con se stessi e conoscenza di sé. Fuori da uno spirito competitivo esasperato, ma dentro uno stare insieme agli altri nel reciproco riconoscimento delle proprie e altrui differenze. Dentro/fuori Il progetto non si caratterizza come esperienza totalmente incentrata sullo stare fuori in natura sempre e comunque. Dentro e fuori non vengono considerati come concetti statici e definiti una volta per tutti, ma liquidi e mutevoli. ‟La questione in gioco non riguarda solo il cominciare ad uscire dagli edifici, ma il pensarsi dentro ad un clima, relazionale e culturale, che riduce le distanze tra le esperienze di cui bambini e ragazzi sono portatori e i programmi che l’educazione formale propone loro, modificando l’approccio e le ragioni per nutrire con nuova linfa il dentro”. Il dentro e il fuori hanno caratteristiche e possibilità proprie e diverse, ma alcune peculiarità del fuori possono entrare dentro ed alcune specificità del dentro possono uscire fuori: ‟una buona educazione indoor si affaccia all’outdoor con la stessa cura e rispetto, e viceversa”. Materiali di recupero Uno degli elementi che potrebbe valorizzare questa continua danza tra dentro e fuori è l’uso, da parte dei bambini, di materiali di recupero per creare, ognuno da solo o in gruppo, i propri oggetti con cui giocare. Servirsi della fantasia per riutilizzare e riciclare materiali vari dando loro nuova vita in un’ottica di rispetto dell’ambiente ed ‟ecologia della mente” (Bateson). Altro materiale con cui vivere il dentro, sarà quello naturale raccolto fuori: tutto ciò che la natura vicino a noi è in grado di offrirci (legni, sassi, foglie…). Valorizzare tutti questi oggetti come materiale cercato, trovato e scelto dai bambini, che amano raccogliere e custodire nelle tasche, e con i bambini a questi oggetti verrà dato un significato. Quale adulto? Nella prospettiva delineata dalla progettualità espressa la figura dell’adulto cambia posizionamento e sguardo. Non siamo più di fronte ad un adulto direttivo e regolatore delle attività dei bambini. L’adulto non struttura (sempre), imposta, predefinisce il percorso di apprendimento e gioco dei bambini. L’adulto agisce, invece, con un ruolo di accompagnamento e sostegno alla loro libera iniziativa. Offrire stimoli ed occasioni, sostenere la creatività e l’iniziativa personale e di gruppo, dare parole e narrazione a ciò che succede, stimolare domande e percorsi di ricerca, condividere possibili significati delle esperienze vissute insieme. Questo è il ruolo che viene richiesto all’adulto di riferimento. L’adulto non è colui che sa e trasmette il suo sapere ai bambini. Siamo lontani dall’immagine dell’imbuto di Norimberga. L’adulto è colui che condivide con i bambini un percorso di crescita reciproca e condivisa.
Le conoscenze e gli apprendimenti si costruiscono, insieme, vivendo esperienze insieme. Oltre ai contenuti, si cerca di porre attenzione ai processi ed alle relazioni attraverso le quali si arriva ad una conoscenza condivisa. Sembra necessario ripristinare una fondamentale distanza fisica ed educativa tra adulti e bambini. Come sottolinea Ottella ‟oggi stiamo sempre più snaturando la nostra funzione di adulti che devono essere mediatori nei confronti del resto del mondo: stiamo rischiando di perdere la capacità di essere disponibili alle ‟fughe” e di confondere l’affetto amorevole con l’ossessiva vicinanza fisica. […] Dare, accettare, provare e concedere delle distanze significa mutare atteggiamenti e diventare adulti capaci di dire «Fai così perché puoi fare, puoi andare, nonostante i miei timori, e così sarai autonomo e fiero di te, e io adulto lo sarò con te»”. Partecipazione vs delega Il coinvolgimento diretto delle famiglie nella progettualità, sostenibilità e sviluppo dell’esperienza comporta un cambiamento culturale importante e faticoso. Pur riconoscendo il tempo storico in cui viviamo, fatto di tante incertezze, insicurezze e paure, si vorrebbe superare un atteggiamento di delega ed abbracciare un approccio più attivo e partecipato come genitori e cittadini. Interessarci dell’educazione e della vita dei figli partecipandovi attivamente, essendo protagonisti dell’esperienza di crescita dei bambini e non semplici consumatori di servizi per l’infanzia. Condividere le paure, speranze, incertezze e fatiche genitoriali può essere uno strumento importante per accompagnare i figli nel difficile e meraviglioso cammino della vita. Responsabilità condivisa Proprio per questo passaggio dalla delega alla partecipazione, la responsabilità dell’esperienza diventa condivisa e non anch’essa completamente delegata a terzi. Con ruoli diversi, ma siamo tutti responsabili di come l’esperienza si sviluppa ed evolve. Se la vita del progetto e la sua concretizzazione sono stabilite insieme, la responsabilità viene distribuita e condivisa tra tutti i partecipanti. Una responsabilità condivisa così intesa diventa anche una responsabilità sociale dei singoli verso il gruppo e del gruppo verso i singoli. Una responsabilità sociale che fa sentire tutti appartenenti alla medesima comunità umana o “comunità di destino”. La rete di relazioni che costituisce la tessitura del progetto diventa una manifestazione di cittadinanza attiva e solidarietà reciproca. Comunità educante L’obiettivo è costruire anche un percorso di condivisione comunitaria, uno spazio di convivenza e convivialità in cui mettere insieme le storie e camminare insieme per un tratto di strada. Partendo dall’esperienza progettuale vissuta con i figli, si vorrebbe creare uno spazio di confronto e conforto per le gioie e le fatiche dell’essere genitori. Un luogo di relazioni e legami che possano essere generativi di incontri, occasioni, possibilità, aiuto e supporto, non solo per la genitorialità, ma anche per tutti gli altri aspetti della vita. Un luogo di condivisione e riflessione su ciò che si sta facendo. Condividere significa abitare insieme il luogo e lo spazio in cui si agisce; significa creare uno spazio emotivo in cui seminare e coltivare un dialogo continuo scambiandosi pensieri, opinioni, immagini; significa proprio attraverso questo scambio scoprirsi quotidianamente ognuno a partire dalla propria originalità e diversità; significa quindi conoscere ed aprirsi all’altro; ignorare, imparare, insegnare; significa attenzione e cura reciproca, ascolto e appartenenza. La condivisione così intesa si avvicina molto al concetto di convivialità così come lo intendeva Illich, il quale definiva conviviali ‟gli strumenti che danno ad ogni persona che li usa la grande opportunità di arricchire l’ambiente in cui vive con il frutto della propria visione”. La convivialità è ciò che consente ad ognuno di ampliare il proprio campo di competenza e di autonomia per arricchire e far progredire al contempo la realtà attraverso quel contributo originale. Creare uno spazio di confronto aperto in cui tutti i soggetti coinvolti nel progetto possano mettersi in gioco confrontandosi e ponendo le basi per una continua auto-riflessione su ciò che si sta facendo e su come lo si sta facendo. Uno spazio meta-riflessivo che permette di staccarsi momentaneamente dal lavoro sul campo per osservarsi ed osservare da un punto di vista differente la realtà in cui si agisce. Abbiamo la Terra non in eredità dai genitori, ma in affitto dai figli (Proverbio Indiano)